Il giornale del brigante


 

 

Il famigerato Caruso
Il famigerato Caruso

 Da un documento della prefettura di Benevento del 1862, risulta un elenco di individui ricercati per essersi dati al brigantaggio, tra i quali emerge il nome di un certo Saverio Fusco fu Giuseppe, di Paupisi.  Crediamo, invece , che il famoso caporal Gennaro corrisponda al  caposquadriglia Gennaro Puzella, protagonista di diverse scorribande nel mandamento e nei comuni limitrofi, ma ucciso dai suoi stessi gregari il 12 settembre del 1862 perchè ritenuto incapace di condurli in salvo attraverso i monti per sfuggire all'esercito piemontese. Qui , però  , si riscontra una forte incongruenza tra quanto scritto da Floridante Bizzarro e quanto si evince dal libro "Il brigantaggio nella provincia di Benevento 1860-1880" di Luisa Sangiuolo, ed. De Martino, per ciò che riguarda l'epilogo della sua vicenda umana. Per la Sangiuolo fu ucciso dai suoi stessi compagni, per il Bizzarro fu fatto fucilare su ordine di Pasquale Zotti in piazza XI febbraio. Vedremo di chiarire per ciò che ci è possibile. Non si fa cenno, invece, al caporal Meo, nonostante fosse ritenuta figura di spicco tra i briganti del Sannio, assieme al caporal Gennaro. Cercheremo pertanto di colmare anche questa lacuna, magari attraversa un'oculata ricerca storica che possa permetterci di rivelare l'identità di questo personaggio, in modo tale da separare la verità storica dei fatti dalle leggende che poi si sono edificate attorno a costoro.

Per quanto riguarda l'episodio cui fa riferimento il titolo, ancora oggi si sente dire da qualche anziano "A Minghillo Morelli ce tagliarono na recchia" che, tradotto per chi non mastica il gergo dialettale, suona come "A Domenico Morelli tagliarono un orecchio". "Minghillo" , difatti, al tempo (seconda metà del XIX secolo) era utilizzato come diminuitivo di Domenico, almeno nella zona di Paupisi. Sembra che costui , sindaco di Paupisi dal 1858, fu vittima di un sequestro lampo da parte di una banda che operava nella zona e che lo condusse tra  i ruderi della badia diroccata di Sancta Maria in gruptis, tra i costoni rocciosi di Vitulano ( vedi anche sezione dedicata all'abbazia nel menù del sito). Se la sua famiglia, che a quanto pare era piuttosto benestante , come risulta allo scrivente da un testamento in suo possesso, redatto dal Morelli nel 1890, non avesse versato alla banda diverse migliaia di ducati, probabilmente oltre all'orecchio lo sventurato avrebbe perso pure la vita.

 

 

I giovani paupisani della Guardia Nazionale Mobile

 

 

Riportiamo un documento riguardante la leva della Guardia Nazionale Mobile, istituita qualche anno prima dal re per reprimere gli ultimi focolari del brigantaggio nel Sannio. Dall'archivio di Stato di Benevento:

 

 Vittorio Emanuele II

 Per grazia di Dio e per volontà della nazione re d'Italia,


L'anno 1865, il giorno 14 giugno in Paupisi,

Noi Girolamo Iannelli onoriamo al nostro Serviente Comunale di citare ed apegnare la sottostante G.N. Mobile perchè per dimani 15 stante alle ore 8 a.m. si presentassero in questa Segreteria Comunale per essere affidati al Conduttore che deve recarli al Consiglio di Revisione in Benevento nella seduta del 16 andante alle ore 8 a.m. presine giusta la nota del sig. Prefetto della Provincia del [non si legge bene] 1a divisione, 2a Legione 665B.

Guardie Nazionali Mobili da citarsi


1) Bovino Pasquale fu Crispino nato nel 1843

2) Colangelo Michelangelo di Nicola nato nel 1844

3) Fusco Francesco Giuseppe fu Gennaro nato nel 1843

4) Zotti Gennaro di Pasquale nato nel 1841

5) Colangelo Pasquale fu Angelo nato nel 1839

6) Colangelo Gianbattista di Nicola nato nel 1841

7) Ciotta Luigi di Nicola nato nel 1842

8) Iesce Filippo di Marzio nato nel 1839

9) Rapuano Dionigi Cosimo di Giovanni nato nel 1835

10) Zotti Orazio Saverio di Pasquale nato nel 1839

11) Angelone Giuseppe di Michele nato nel 1832

12) Colangelo Gennaro fu Angelo nato nel 1839

13) Cusano Antonio di Gianbattista nato nel 1832

14) Colangelo Gabriele di Luigi nato nel 1839

15) Colangelo Gioacchino nato nel 1831

16) Coletta Filippo di Domenico nato nel 1833

17) Fusco Antonio nato nel 1836

18) Iannelli Giacomo di Girolamo nato nel 1839

19) Puzella Barbato fu Nicola nato nel 1833

20) Fusco Francesco Giuseppe fu Barbato nato nel 1843


L'anno 1865, il giorno 14 del mese di Giugno in Paupisi.

Si certifica da me qui sottoscritto Segretario Comunale di Paupisi qualmente il Serviente Comunale Antonio Majello mi ha riferito di aver notificata e lasciata copia della soprascritta ordinanza alle G.N. Mobili di questo Comune, ivi votate.


Visto                                                                 Il Segretario Comunale


Il Sindaco                                                          Francesco Saverio Zotti

Girolamo Iannelli

 

 

 

 

DEL BRIGANTAGGIO

 

di: Nicolino POLCINO - da: "Paupisi del mio cuore e l’unità d’Italia" , 2003

 

Il brigantaggio in questo libro non è stato trattato poiché, per un approfondimento veritiero, necessitavano particolari ricerche per le concordanze storico-logistiche. In Paupisi, terra dei “Cacciatori Garibaldini Irpini”, poco o niente attecchì la foraggiata reazione per la restaurazione del Regno Borbonico. Qualche attività del brigantaggio, ad affiancare i tentativi dei reazionari, si limitarono ai confini di Nord-Ovest del territorio paupisano ove i centri di movimenti insurrezionali, dell’ex ducato di Caserta, asserviti ai Notabili rimasti fedeli alla Monarchia dei Borboni, tenevano viva la fiamma del brigantaggio. Il territorio interessato, più prossimo ai nostri confini, erano le zone montuose delle propaggini del Vitulanese, Solopaca, San Lorenzo, Casalduni con transito al ponte Maria Cristina e alle scafe sul Calore di San Stefano-Limata e San Pietro. I capi briganti: Caporal Meo, Caporal Gennaro, Caruso, Santaniello sono persongaggi che si trovano citati anche impropriamente in episodi non a loro attribuibili e a volte inventati di sana pianta. Mi limito, perciò, ad inserire in questo libro una lettera del gennaio 1862 del concittadino N. H. Girolamo Iannelli scritta al sig. Peppino Mellusi, padre dell’Ill/mo Poeta e Storico Antonio Mellusi di Torrecuso, nella quale narra dettagliatamente l’episodio della cattura e sequestro accadutogli. Questo avvenimento era già a mia conoscenza, non così particolareggiato, giacchè il nominato Domenico Morelli, sindaco di Paupisi dal 1858, era il mio bisnonno materno e mia madre spesso raccontava l’accaduto.

Al sig. Peppino Mellusi

“Vi sono in debito d’una risposta, e non prima d’ora sono stato nel caso di potermi sdebitare. La vostra lettera, che fu piena di affetti, mi consolò immensamente: grazie dunque, grazie mille. Sono certo che bramate conoscere per intero la mia catastrofe, e mi accingo a narrarvela. La mattina di lunedì, 20 stante Gennaio, si presentarono in casa mia Domenico Morelli e D. Titta Bianco, e mi premurarono di accompagnarli alla caccia dei “maliardi”: io non seppi negarmi, e condiscesi insieme a mio figlio Nicola. Partimmo tutti e quattro, ma io di cattivissima voglia. Giunti verso San Pietro La Difesa, non osservammo sul fiume alcun “maliardo”; ed io cominciai a pregare di ritornare per altra via, ove potevamo uccidere qualche lepre; ma le mie preghiere non valsero a smuovere gli altri, e proseguimmo. Giunti al confine di S. Stefano, ammazzammo una lepre, ed io rinnovai le mie preghiere, ma inutilmente. Infine ci inoltrammo a Santo Stefano fino al luogo detto lischitella. Là ammazzammo un’altra lepre, e dopo qualche pausa ritornammo per la stessa via. Non appena prendemmo il vallone con l’acqua, cioè quello dove sta la fontana, vedemmo correre una quantità di persone. Il primo pensiero fu il fuggire, e si fuggì; ma come io osservai un’altra quantità di persione che calavano all’altra via del vallone, conobbi che la fuga sarebbe stata inutile e rimasi fermo. In meno che vel dica, fui preso, disarmato e legato. Rimasto con me uno dei briganti per guardarmi, gli altri inseguirono i fuggitivi, tirando continue fucilate. Nicola cercò di eludere i briganti per la strada che conduce a Solopaca, e fortunatamente vi riuscì. Domenico e D. Titta Bianco presero la via della “piana”, e quindi sempre inseguiti a fucilate. D. Titta si gettò nel fiume e dopo grave pericolo riuscì a salvarsi; Domenico Morelli si arrendè, perché non aveva altro scampo. Preso e legato anche lui, lo condussero dove ero io; ed ambedue fummo condotti nel folto del bosco, sotto quel pendio che comincia a piè della Madonna delle Grotte. Giunti colà, trovammo uno spiano con fuochi, ed altri due Briganti di guardia. Non appena furono tutti riuniti, ci legarono ad un albero, dicendo che volevano fucilarci. Noi, con buone parole ci giustificammo delle accuse che ci venivano addebitate; e siccome fra tutti quegli assassini vi erano degli uomini di avanzata età, così si interposero, e gli altri ci donarono la vita, a condizione però, di far venire subito la somma di ventimila Ducati, pane,salami, biancheria ed abiti. Noi ci opponemmo alla somma indicata e si compiacquero di ridurla  a settemila. Così facemmo dei biglietti alle nostre famiglie, ed essi li mandarono nel paese, per mezzo di un lavoratore di Foglianise. Restammo sciolti fino alla sera, quando giunsero le persone mandate dalle nostre famìglie, con la roba richiesta e i danari. Allorchè arrivarono, i Briganti verificarono il tutto, e trovando il danaro molto scarso, si indignarono fortemente: ci legarono di nuovo, e ci tagliarono le orecchie! Le avvolsero in due carte, ed ordinarono ai paesani venuti, di portarle alle nostre mogli, avvisandole che, se non venivano i danari, avrebbero loro mandate le nostre teste. Partiti i corrieri, noi restammo tutta la notte all’aria aperta, in mezzo ai due grandi fuochi. La mattina il capo ci ordinò di seguirli, e tutti, in venticinque, compresi noi due, salimmo la montagna, fino a Cesco Sommano, bagnati di sangue e tremanti di freddo. Arrivammo là appena giorno, e mentre si incominciava a preparare il fuoco per riscaldarci, si vide apparire la truppa. Oh che momento fatale! Subito fummo legati, e gettati sulla neve, messi a tiro dei fucili dei Briganti. Ma grazie ai nostri santi protettori, alle nostre preghiere, e alle buone parole dei più misericordiosi, fummo risparmiati pel momento, a patto però che se si eseguiva l’assalto e se moriva alcuno di loro, per noi non ci sarebbe stato più scampo. Restammo così legati e senza fuoco dalla mattina fino a 21 ora. Durante questo tempo, si batterono i Briganti e la Forza, ingiuriata da essi. A quell’ora , infine, la Forza, vile o incapace, incominciò a cedere e ritirarsi: noi respirammo in qualche modo. Accesi dei fuochi, fummo slegati, ed avvicinati al fuoco, cominciammo a pattuire la nostra vita. Fortunatamente, riuscimmo a guadagnarla, ma ci mancavano i mezzi per farlo sapere alle famiglie. Per le premure di queste, arrivarono tre persone, e subito le inviammo a casa. Esse ritornarono nella notte col danaro e tutte le vettovaglie richieste. Numerata ogni cosa e ben divisa fra di loro, i Briganti ci diedero la libertà: libertà che poco mancò non fosse inutile per me, che caddi da una rupe e non so come son qui vivo! Questa è la orrorosa istoria; ma non è tutto: è necessario che vi dica alcune osservazioni. Siate certo che i Briganti, con questa Forza attuale non si distruggono. Insultata in quel modo, non si risentì, non si curò di dare la caccia nel bosco: essa si limita a percorrere i luoghi più sicuri, lasciando in pace i Briganti nei loro nascondigli: figuratevi se possono essere distrutti, senza essere ivi assaliti. In prova vi narro un fatto. Il giorno appresso alla nostra libertà, molta Forza si recò a Santo Stefano. I soldati stesero il cordone ed accesero dei fuochi. Un passeggiero disse ad un sergente: - Perché non calate giù? – Quegli rispose: - Le nostre palle fischiano, ma quelle dei Briganti fischiano ancora di più! . Può mai distruggersi il brigantaggio dopo tale confessione? … Cosa han fatto di più i soldati quando hanno veduti con gli occhi propri venticinque Briganti che li hanno insultati e “scoppettiati” ? Oh Gendarmeria Gendarmeria, Gendarmeria!... Veniamo al potere giudiziario. Il Giudice si recò in casa mia a prendere la mia dichiarazione. Volle sapere il nome dei paesani che si benignarono di venire a vedere se eravamo in vita. Io, ingenuamente, li nominai. Che ne è successo? Tutti arrestati e perquisite le case, in modo che ha prodotto orrore nel paese! Chi vi sarà più che, in altra circostanza, vorrà prestarsi per salvar la vita di altri infelici? Dio, dove ci troviamo! I Briganti trionfano e si teme di assalirli; mentre si mostra tanto zelo per punire gli uomini dabbene. Forse le processure, non i fucili, distruggono i Briganti? Finisco, perché non ne posso più; ma voi sapete considerare il resto. Con rispetto, mi segno.

 

Paupisi lì 28 del 1862

Il vostro serv. Girolamo Iannelli

Questa lettera del gennaio 1862, venne diretta al padre mio che nell’anno seguente doveva patire cattura più tragica da una banda di Briganti a cavallo nel piano dell’Olivola presso a Benevento. Girolamo Iannelli di Paupisi, fu un’operaio onestissimo, senza studi, ma dotato di raro senno e desideroso di ogni progresso. Come il suo amico Domenico Morelli – pure degno di stima, - tenne con molta lode l’ufficio di Sindaco nel suo Comune, dando impulso ad opere pubbliche. Uno de’ suoi figli era il Cavalier Nicola Iannelli – nominato nella lettera, - imitatore delle virtù paterne. Egli divenne il più operoso Presidente della Società Operaia di Benevento, e meritò di far parte dell’Amministrazione della città fra il rispetto di quanti ne conobbero la sua mente lucida e l’onestà immutabile.

A.M.

(n.d.a. Antonio Mellusi)

 

 

 

 

Briganti della banda Ciccone esposti come trofei dai soldati piemontesi: i quattro in mezzo sembrano vivi, in realtà sono morti e vengono sorretti dai soldati
Briganti della banda Ciccone esposti come trofei dai soldati piemontesi: i quattro in mezzo sembrano vivi, in realtà sono morti e vengono sorretti dai soldati

 

 

 

 

LA FINE DEL BRIGANTAGGIO

 

di: Floridante BIZZARRO - da: "Paupisi nella storia" Ricolo Editore - Benevento, 1981

 

 

La fine del brigantaggio nel Beneventano è appena accennata nelle cronache del tempo, ma vive ancora oggi nei racconti del focolare presso gli anziani dei paesi della zona del Vitulanese. Il monte San Menna là dove si adagia Paupisi ed i casali di San Pietro la Difesa e Santo Stefano, lungo il fiume Calore, fino a Solopaca, erano dimora e campo d'azione e di rifugio delle bande bene organizzate e foraggiate dallo spodestato re di Napoli, nel 1860-1861, al comando di due fra i più astuti briganti del Mezzogiorno, il Caporal GENNARO e il Caporal MEO. Non riveliamo i cognomi delle rispettive famiglie ancora esistenti nel luogo. Poco dopo la costituzione della nuova Provincia di Benevento, nel settembre 1860, con decreto del dittatore GARIBALDI, il re VITTORIO EMANUELE II, preoccupato della grave situazione del Sannio, infestato come negli Abruzzi e nel Molise, da orde di criminali, agli ordini del Borbone ansioso di riconquistare il trono, creò la Guardia Nazionale, quale polizia repressiva di Stato, con elementi locali di provata fede patriottica, e venne decretato lo stato di assedio nella Campania, nel Molise e nell'Avellinese, al comando del generale GIORGIO PALLAVICINO. Per designazione dell'eroico colonnello garibaldino GIUSEPPE DE MARCO da Paupisi, membro del Direttorio di Benevento, l'artefice della rivoluzione sannita che scardinò totalmente il Regno borbonico, come è consacrato nella Storia del Risorgimento e nelle pagine della liberazione del Mezzogiorno, il generale PALLAVICINO nominò a capo della Guardia Nazionale per Paupisi e territorio PASQUALE ZOTTI, detto per antonomasia "don Pasquale" autorevole personalità del paese, uomo di specchiata onestà, facoltoso proprietario terriero di San Pietro la Difesa. Di antica famiglia oriunda del Veneto, trasferita nel lontano Medio Evo nelle Calabrie, e stabilitasi poi nel Sannio, aveva con sé l'austerità e la statura morale nonché fisica della gente alpina; di poche parole, autoritario, energico nel gesto, severo con se stesso e con gli altri, era l'uomo più adatto per ristabilire l'ordine e l'autorità dello Stato, contro insidie di malfattori, rei di efferati delitti contro la vita e la proprietà. Senza esitare don Pasquale Zotti, iniziò l'azione a fondo per la cattura dei due briganti, mentre le truppe regie agivano nella zona del Taburno. Ma un triste giorno, presso la sua masseria della "Fontanella" in quel di San Pietro la Difesa, i briganti catturarono il figlio minore, giovane inesperto, GENNARO, padre di EMILIA, nonché lo stesso arciprete del paese, congiunto di don Pasquale, don FRANCESCO ZOTTI, e trascinarono i due sulla montagna. Seguì il ricatto con la minaccia di morte per entrambi, ove non fossero consegnati generi alimentari e denaro. Don Pasquale non mosse ciglio e ordinò che tutto quanto richiesto fosse approntato e condotto sulle grotte indicate al monte San Menna. I prigionieri vennero restituiti laceri e malconci per lividure e sevizie, con propositi di minaccia e di vendetta per don Pasquale. La riscossa non tardò ad essere organizzata nel più rigoroso silenzio, dagli ZOTTI padre e figlio ORAZIO, vice comandante della Guardia Nazionale, anche egli animoso e ardimentoso. Ricevute armi e munizioni dal comando di Benevento, radunati fidatissimi coloni, con abile accorgimento, riuscirono a trarre i due briganti in una casa all'ingresso del paese presso la chiesa di Santa Maria del Bosco, ora abbattuta. Dallo studiato appostamento, ORAZIO ZOTTI, che si era posto a capo dei coraggiosi, insieme col fratello minore GENNARO, iniziarono l'attacco e dopo una violenta sparatoria, malgrado l'accanita difesa, i due briganti feriti vennero catturati, insieme con altri cinque della banda. Per ordine di don Pasquale, tanto caporal GENNARO come caporal MEO, vennero passati per le armi, come da autorizzazione ricevuta. All'alba, i corpi dei malfattori venivano impiccati all'ingresso del paese e un inviato era spedito a Benevento per comunicare l'esito dell'operazione, che meritò l'elogio del generale PALLAVICINO. Con un apposito bando don Pasquale avverti nelle campagne che tutti tornassero al lavoro e alla sicurezza dei beni e della vita, poiché il brigantaggio era finto. L'impresa di Paupisi segnò il declino della resistenza del brigantaggio. Pochi giorni dopo, le truppe del Taburno catturavano il più efferato della zona, il celebre CARUSO, fucilato sulla piazza d'armi a Benevento, e nell'Avellinese, le truppe regie catturavano e uccidevano i fratelli SANTANIELLO. Don Pasquale Zotti si ritirava tranquillo e sereno nelle sue terre, dopo aver ceduto il Comando della Guardia Nazionale al figlio ORAZIO, fino al termine dello stato d'assedio.

 

 

 

 

 

Di seguito una pagina dell'almanacco "Pulicenella e lo diavolo zuoppo: spassatiempo de Napole e trentaseje Casale" dove si parla di briganti a Paupisi. Leggiamo "A Paupisi, li  brigante mannajeno la cercà 120 ducate, pane e vino;ma essenose lo popolo niato, amminacciajeno de assartarlo. Tutta la popolazione s'armaje e li steva aspettanno, onne li brigante se nne fujettero".

 

 

 

G. De Marco e la strage di Pontelandolfo

Pontelandolfo, qualche giorno prima della sua devastazione
Pontelandolfo, qualche giorno prima della sua devastazione

 

 

di: Antonio CIANO - da: "I Savoia ed il massacro del Sud", 1996

 


A Pontelandolfo come in quasi tutti i paesi del Molise, degli Abruzzi, della Ciociaria, del Matese, del Chietino, degli Ausoni, la bandiera gigliata sventolava sui pennoni più alti. Tutto un popolo era insorto contro il Piemonte, contro Vittorio Emanuele II. Solo pochi volevano essere servi di uno Stato ritenuto il più retrivo e reazionario d’Europa. Qualcuno proponeva per la repubblica che Mazzini sognava, ma tutto il popolo contadino stava dalla parte dei Borbone. La libertà, la gente del Sud, l’ha sempre conquistata col sangue.

 

Su ordine del Generale Cialdini il 13 agosto 1861 partì da Benevento una colonna di bersaglieri, tutti tiratori scelti. La colonna era comandata dal Generale Maurizio De Sonnaz, detto "Requiescant" per le fucilazioni facili da lui ordinate e per il massacro di parecchi preti e l’attacco ad abbazie e chiese.

Il generale piemontese era a capo di novecento bersaglieri assassini e criminali di guerra. Costoro avevano fucilato e violentato migliaia di meridionali, avevano saccheggiato chiese e casolari.

I piemontesi, barbari cisalpini e feroci assassini, usarono sistematicamente la violenza per avere il controllo del territorio; usarono la fucilazione come arma di democrazia liberale. Saranno maledetti per sempre da Dio e dagli uomini.

Il colonnello Negri procedeva a cavallo, con a suo fianco il garibaldino del luogo De Marco e due liberali pure del posto a far da guida ai cinquecento bersaglieri, che costituivano la colonna infame che stava dirigendosi verso Pontelandolfo. Era l’alba del 14 agosto. A tutto si poteva pensare fuorché ad un eccidio che, a memoria d’uomo, da quelle parti, nessuno ricordava.

Alla stessa ora un’altra colonna, sozza quanto la prima, stava dirigendosi verso Casalduni. Era composta da 400 uomini ed aveva per guida il liberal massone Jacobelli, traditore del popolo e servo dei piemontesi; a comandarla era il maggiore Melegari. Entrambe le colonne erano coordinate dal De Sonnaz.

Gli ordini di Cialdini erano precisi: distruggere i due paesi e dare una lezione esemplare ai cafoni; dovevano pagare con la morte la sfida fatta al potente Piemonte.

L’intera popolazione di Pontelandolfo doveva pagare per la fucilazione dei soldati del tenente Bracci. De Sonnaz era lì per questo.

La banda di Cosimo Giordano bivaccava ad un chilometro da Pontelandolfo, nella selva, tra i monti che dominano la città sannita. I partigiani avvertiti dai pastori e dal loro servizio di informazione capillare, s’erano appostati per tendere un agguato ai piemontesi, ma erano solo cinquanta (..). Erano tutti armati di fucili e provvisti di cavalli freschi e veloci, pronti a lunghe cavalcate per scoscesi sentieri. (…)

Il colonnello Negri, impettito e baldanzoso, sicuro di sé, a testa alta, in sella al suo cavallo nero, attorniato dai suoi sottoposti, con alla destra il traditore De Marco e alle spalle altri due "feccisti" liberali del paese nonché spie, avanzava spedito verso Pontelandolfo, e rivolgendosi al garibaldino disse: "De Marco, oggi assisterai ad una pagina che sarà scritta sui libri di storia; daremo una lezione a questi cafoni, la notizia si spargerà in tutto il Sud che ha osato ribellarsi ai voleri di casa Savoia….."

Una scarica di pallottole interruppe il colonnello piemontese. Tutti scesero dai cavalli, qualcuno cadde morto, altri furono feriti., altri ancora risposero al fuoco, ma era ancora buio e la selva copriva le ombre dei partigiani borbonici, i quali continuavano a sparare nel mucchio, alla cieca, non potendo mirare giusto data l’ora mattutina. La sparatoria durò non più di dieci minuti, fu feroce e ravvicinata. Gli uomini di Giordano, avvantaggiati dall’effetto sorpresa vedendo che i bersaglieri prendevano posizione di combattimento e presagendo una sconfitta, naturale, date le forze in campo si diedero alla fuga.

I bersaglieri contarono venticinque morti. Il colonnello Negri, anziché inseguire i patrioti di Giordano, diede ordine ad un plotone di comporre le salme dei soldati caduti.

Un vero soldato avrebbe dato la caccia a quelli che Negri chiamava briganti e che avevano steso venticinque dei suoi uomini, ma l’ufficiale piemontese, come la maggior parte dei militari savoiardi, era un assassino spietato, un delinquente, un codardo, un pusillanime, e preferì essere iscritto per l’eternità nell’albo dei più feroci criminali di guerra.

I cinquecento bersaglieri circondarono il paese, tutti ben appostati, fucili alla mano, pronti a far fuoco. Ad un cenno del colonnello Negri, un plotone, con il De Marco e due liberali, entrò nella città ad indicare le case dei settari massoni da salvare. Prelevarono dalle loro abitazioni Giovanni Perugino e Iadonisio.

Portata a termine l’operazione salvataggio dei settari, che non superavano la decina, i bersaglieri si gettarono a capofitto nei vicoli e nelle strade di Pontelandolfo. Dar fuoco alle case fu cosa facilissima, in quanto i bassi erano colmi di fieno e stipati di legna secca che i contadini erano soliti mettere al riparo per usarla d’inverno. I bersaglierei di alcuni plotoni erano intenti a mettere fascine di paglia agli ingressi delle stalle, con i calci buttavano a terra le porte e con le torce appiccavano il fuoco. I vicoli erano sbarrati da tre o quattro soldati, la città in meno di mezz’ora era diventata un immenso rogo.

Iniziò così l’eccidio di Pontelandolfo.

L’ora mattutina e soprattutto la convinzione della restaurata libertà facevano fare sonni tranquilli e beati alla popolazione. Alzarsi di botto e vedere quegli assassini che stavano incendiando le loro case provocò, in molti, un’autodifesa naturale.

Molti si armarono di roncole e forche ma i fucili dei pennuti piemontesi avevano la meglio su di loro. Alcuni vennero stesi nella propria abitazione, altri dormienti nel proprio letto; altri mentre fuggivano. Qualcuno riusciva ad oltrepassare la porta di casa ma veniva abbattuto sull’uscio. Pochi riuscivano a raggiungere la fine del vicolo, subito abbattuti dai piemontesi, senza pietà. Grida, urla, gemiti dei feriti, pianti di bambini. Pontelandolfo fu messa a ferro e a fuoco.

Tutto il paese bruciava; i lamenti salivano al cielo, ed ancora grida ed urla.

Nicola Biondi, contadino di sessantanni, fu legato ad un palo della stalla da dieci bersaglieri, i quali denudarono la figlia Concettina, di sedici anni e la violentarono a turno. Dopo un’ora la ragazza, sanguinante, svenne per la vergogna ed il dolore.

Il bersagliere che la stava violentando, quasi indispettito nel vedere quel corpo esanime, si alzò e le sparò. Il padre della ragazza cercava di slegarsi, usava tutte le forze, cercava di liberarsi dalla fune che lo teneva inchiodato al palo, e nello sforzo il sangue gli usciva dalla pelle. A dare fine al suo tormento e alla sua pena pensarono i bersaglieri con una scarica micidiale. Le pallottole ruppero persino la fune e Nicola Biondi cadde carponi nei pressi della diletta figlia Concettina.

Nella casa accanto abitava Santopietro; con il figlio in braccio, stava per scappare, ma fu intercettato dai soldati savoiardi, che gli strapparono il bambino dalle mani e lo freddarono senza misericordia. Il maggiore Rossi, con coccarda azzurra al petto, era il più esagitato, dava ordini, gridava come un ossesso, sembrava ubriaco, forse lo era, sembrava un vampiro. Era assetato di sangue e con la sciabola infilzava i fuggitivi mentre i suoi sottoposti non erano da meno, sparavano, sparavano, sparavano.

I cadaveri erano tanti, ma per il colonnello Negri non bastanti per la vendetta e allora ancora a snidare i pontelandolfesi dalle loro case.

Angiolo De Witt, del 36° fanteria bersaglieri così ha descritto quell’episodio:

"….il maggiore Rossi ordinò ai suoi sottoposti l’incendio e lo sterminio dell’intero paese. Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza a snidare dalle case gli impauriti reazionari del giorno prima, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette a scendere per la via, ivi giunti, vi trovavano delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro.

Molti mordevano il terreno, altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, ed i superstiti erano obbligati a prendere ogni specie di strame per incendiare le loro catapecchie. Questa scena di terrore durò un’intera giornata: il castigo fu tremendo….."

Non sappiamo se il maggiore Rossi, il colonnello Negri ed il generale De Sonnaz ebbero una medaglia al valore per quell’azione ardimentosa, ma una cosa è certa: questi assassini, questi criminali di guerra sono stati fatti passare per eroi dalla storiografia ufficiale sabaudo-risorgimentale, molte strade e molte piazze sono ancor oggi a loro intitolate:

Via Rossi, maggiore ed Eroe di Pontelandolfo;

Via Gaetano Negri, sindaco di Milano ed eroe di Pontelandolfo;

Via De Sonnaz, Conte e Generale piemontese, Eroe di Casamari, Perugia e Pontelandolfo;

Via Cialdini, Eroe di Gaeta, di Pontelandolfo, Casalduni, Venosa; Montefalcione, Auletta, ecc., ecc.

Ecco come il grande Piemonte portava i segni della civiltà cisalpina nella culla della barbarie; ecco come i Savoia intendevano l’unità d’Italia!

Il generale Cialdini aveva sempre una coccarda azzurra al petto e dava ordini dalla sua luogotenenza di Napoli al generale De Sonnaz, altro azzurro con coccarda. Il De Sonnaz a sua volta trasmetteva gli ordini assassini al colonnello Negri, anche lui incoccardato con grande stoffa di seta azzurra, che a sua volta illuminava di disposizioni il maggiore Rossi, che prediligeva incendiare interi paesi e sparare su donne e bambini col suo revolver, anche lui incorniciato dalla coccarda azzurra, come incoccardati erano tutti i bersaglieri, compreso il De Wit. Ebbene, questi delinquenti di guerra, questi bastardi del risorgimento italiano stavano portando a compimento l’ennesimo truculento eccidio con forsennata ferocia e senza pietà alcuna verso una popolazione fiera del suo Re Borbone, fiera della sua dignità, fiera della sua libertà, fiera della sua storia, fiera di essere italiana, fiera della sua religione, fiera di battersi per l’Altare e per il trono del suo Re. Quando mai gli austriaci nel Lombardo –Veneto usarono simili metodi? Gli austriaci erano tedeschi, cattolici e soprattutto erano soldati e si battevano contro soldati, erano un popolo civile e fiero. I piemontesi, che i romani avevano accomunati all’Italia, come Caino, stavano assassinando e massacrando i loro fratelli napoletani.

L’eccidio cominciò alle 4 di mattina. I partigiani, che erano accampati sulle Campetelle, dopo aver ammazzato 25 piemontesi, diedero l’allarme. Uno di essi riuscì ad andare dal sagrestano, prese la chiave del portone del campanile e cominciò a suonare a stormo le campane…..

Il paese venne dato alle fiamme, la prima casa che bruciò fu quella dell’arciprete Epifanio De Gregorio ….

Un solo guerrigliero fu ucciso (presumibilmente il partigiano che era andato a suonare l’allarme sul campanile)…. Dopo i soldati si abbandonarono al saccheggio e ad atti di lascivia….

Alle ore sei metà paese era già in fiamme, i bersaglieri continuarono la mattanza.

Ancora uccisioni, stupri, fucilate, grida, urla. I vecchi venivano fucilati subito e così i bambini che ancora dormivano nei loro letti. Molti bersaglieri, avendo finito le munizioni in dotazione, per non tornare a rifornirsi al campo base situato fuori il paese, usavano la baionetta in canna al fucile e passavano all’arma bianca i poveri disgraziati di Pontelandolfo.

Dopo aver ammazzato i proprietari delle abitazioni, le saccheggiavano: oro, argento, soldi, catenine, bracciali, orecchini, oggetti di valore, orologi, pentole e piatti.

Pochi di quegli eroi conoscevano la lingua italiana, e la maggior parte dei soldati piemontesi, analfabeti ed ignoranti, qualche parola l’avevano imparata al di qua del Tronto, comunque una parola sapevano pronunciare: "Piastre! Piastre!", la dicevano entrando di prepotenza nelle case dei pontelandolfesi: "Dove avete le piastre, piastre o morte". I barbari non si accontentavano delle piastre d’argento borboniche, bruciavano anche le case e ammazzavano senza pietà i loro occupanti.

La morte, a volte, valeva una, due, tre piastre. Intanto il sangue scorreva a fiumi per le strade di Pontelandolfo. Prima ad essere saccheggiata fu la chiesa di San Donato, ricca di ori, di argenti, di bronzi lavorati, di voti: persino le statue dei santi furono trafugate! Il saccheggio e l’eccidio durarono l’intera giornata del 14 agosto 1861.

Donne seminude, sorprese mentre dormivano, cercavano scampo fuggendo; ma, se vecchie, venivano subito infilzate, se giovani ed avvenenti, venivano violentate e poi uccise.

Due giovani che erano stati salvati dal De Marco in quanto liberali, nel vedere tanta barbarie e tanto accanimento contro i loro concittadini e contro la loro città, dopo essersi consultati col proprio padre, si diressero verso il colonnello Negri. Non avrebbero dovuto!

I due giovani avevano appreso le idee liberali frequentando circoli culturali di Napoli, sognavano un’Italia Una, libera, indipendente; sognavano la fratellanza. La loro adesione al liberalismo fu vanificata da quelle scene di terrore e di orrore; di colpo s’accorsero che il re sabaudo era un macellaio e che il vero liberale era il Re Borbone.

Il più giovane aveva finito da poco gli studi all’università di Napoli e stava per cimentarsi nella libera professione dell’avvocatura; il più grande era un buon commerciante di Pontelandolfo.

I due benpensanti liberali pontelandolfesi furono accompagnati al cospetto del colonnello Negri dal garibaldino De Marco: L’avvocato si rivolse verso l’ufficiale piemontese, quasi a rimproverarlo: "Sig. colonnello siamo venuti qui da liberali, da unitari e nazionali quali siamo sempre stati a fare pubblica rimostranza per quello che sta accadendo nel paese".

Negri:" Cosa sta accadendo?"

Rinaldi, così si chiamava l’avvocato:" I bersaglieri stanno incendiando tutte le case di Pontelandolfo e stanno uccidendo tutti. In nome di Dio, li fermi!"

Negri: "Quei luridi reazionari hanno massacrato quaranta soldati piemontesi, quaranta eroi; per ogni soldato moriranno cento cafoni, capito?"

Rinaldi: "Sig. colonnello, ciò che lei dice è contro le più elementari leggi, è immorale, devono essere presi i responsabili e giudicati da un tribunale."

Negri: "Da un tribunale? Io conosco un solo tribunale, quello che stai vedendo. La vendetta militare."

Rinaldi: " Ma lì non ci sono militari, vi è solo gente indifesa".

Negri: "Quella gente ha massacrato quaranta piemontesi e pagheranno con la morte"

Rinaldi: "Sig. colonnello, questo è un eccidio, passerete alla storia come un criminale di guerra, un assassino!"

Negri:" Guardie, guardieee! Prendete questi due e fucilateli, sono come gli altri, liberali o non liberali, fucilateli."

Dieci bersaglieri presero i due, gli svuotarono dei soldi che avevano nelle tasche e li portarono nei pressi della chiesa di San Donato. I due fratelli chiesero un prete per l’ultima confessione, gli fu negato.

Istantaneamente furono bendati e fucilati. Morirono gridando ai piemontesi: "Assassini maledetti!"

Furono raggiunti dai pallettoni mente sputavano verso il plotone di esecuzione.

L’avvocato morì subito mentre il fratello, nonostante fosse stato colpito dalle pallottole era ancora vivo. Il colonnello Negri, si avvicinò e lo finì con un colpo di baionetta.

La strage continuò: ogni casa veniva rovistata, saccheggiata, incendiata. I morti venivano accatastati l’un sull’altro, e fra quei corpi vi era anche qualcuno ancora vivo, che per il dolore mordeva il corpo del cadavere sottostante. Chi non riusciva a morire subito doveva anche sopportare la tortura del fuoco, che veniva appiccato sopra i cadaveri con legna secca e fascine fatte portare lì da giovani sotto la minaccia delle baionette.

Il colonnello Gaetano Negri, il generale De Sonnaz, il generale Cialdini, il maggiore Rossi erano orgogliosi di portare la coccarda azzurra come segno della fedeltà a Casa Savoia. Tutti appartenevano alla casta militare piemontese, tutti di provata fede massonica.

Pontelandolfo stava bruciando; i saccheggi continuavano senza sosta come pure gli assassinii.

Moltissime donne furono violentate e poi ammazzate; alcune che s’erano rifugiate nelle chiese furono trucidate dopo essere state denudate davanti all’altare. Una, nell’opporre resistenza graffiò a sangue il viso di un piemontese; le vennero mozzate entrambe le mani e poi finita a fucilate. Furono uccisi uomini, donne e bambini. Tutte le chiese furono profanate e spogliate dei doni centenari. Le ostie sante furono gettate, le pissidi, i voti d’argento, i calici, le statue, i quadri, i vasi preziosi e le tavolette votive, rubati.

Due di quei soldati di fede cattolica, rubarono il mantello della Madonna e la corona inghirlandata che cingeva la sua testa. Poiché per un cattolico è peccato mortale profanare i luoghi sacri, i due eroi piemontesi credendo che crollasse la chiesa dopo tale misfatto, fuggirono impauriti. Due settimane dopo, uno di essi tornò davanti alla Madonna spogliata e sfregiata, piangendo ed implorando il perdono, in quanto il compagno che aveva rubato e profanato con lui la chiesa era morto improvvisamente.

Dopo ore di stragi, di eccidi, di massacri, di ruberie, il generale De Sonnaz fece suonare l’adunata ed il ritiro della colonna infame.

I bersaglieri erano stanchi di assassinare, stanchi di correre, madidi di sudore dovuto al caldo afoso di quel giorno d’agosto ed al fuoco che divampava nelle case. A molti sanguinavano le dita e le mani per aver sparato troppo. I loro zaini erano pieni di refurtiva e le loro tasche piene di piastre d’argento.

Al suono del trombettiere tutti si ritirarono. Inquadrati e sull’attenti al cospetto del generale De Sonnaz.

La colonna degli eroi infami si diresse verso Fragneto e poi a Benevento, ove il giorno dopo, nei loro alloggiamenti, i piemontesi mercanteggiarono tutto il bottino sacro profanato; e per questo motivo dai beneventani fu chiamata caserma del Gesù.